30 secondi di te
Ferma il tempo Carlos, non pensare a raccontare il tempo, racconta solo 30 secondi del tuo tempo e dedicagli tempo, falli sembrare più lunghi, desidera che non terminino mai.

Un esercizio che solo un livello molto avanzato può portare a termine con questa bravura. Anche gli italiani ti leggeranno con un che di sorpresa.

Passo veloce la soglia. Se non mi affretto perderò il primo autobus. L’alba non è ancora arrivata ma ad est il cielo, tagliato dalle forme geometriche dei palazzi, inizia a vedersi tra rosato e arancione. Si vedono pure i resti delle nuvole che ci hanno portato la pioggia tutta la notte. Forse per questo la mattinatta è fredda nonostante sia maggio. Ad ovest, invece, la luna è una lampadina che illumina il buio notturno. Le stelle, però, se ne sono andate. La pioggia ci ha lasciato quel profumo di sabbia bagnata e d’erba appena falciata. Quell’odore che mi riporta al giardino dei miei nonni tanti anni fa. Fraganze di rosmarino, di pigne cadute , di sughero, di biscotti, di latte caldo al cioccolato, di stufa a legna.

Le foglie degli esili alberi piangono gocce e le radici aprono ferite nel marciapiede grigio, ancora bagnato. Un po’ di nebbia si attacca al pavimento. Duecentocinquanta metri alla fermata.

Le finestre dei palazzi vicini, qualcuna con la luce accesa, alloggiano i sogni degli uomini dietro le tende. I piccioni insonni bevono acqua fresca dalle pozzanghere. Gli altri ucelli tacciono per ora. Il mio camminare è rapido. Quasi sportivo.

Ousmane, trentacinquenne lungo e magro, nero come un tizzo, fa suonare il campanello quando mi passa vicino con la bicicletta. A dire il vero, non conosco il suo nome. Dare un nome alle persone era un gioco che facevo da bambino e che faccio ogni tanto ancora. Ousmane è un bel nome comunque.

Il Signor Francesco, ingegnere pensionato, rotondo e calvo, vestito con blazer blu, jeans logorati e sportive rosse, fa passeggiare il cane, non più grande di un topo, con il pelo marrone scuro e lungho fino al pavimento. Buongiorno, Buongiorno, Ciao.

Il giallo lampeggia nei semafori. Il rumore delle scarse macchine rompe il silenzio. Acelero ancora i miei passi. Inizio a sbuffare. Duecento metri alla fermata.

Il bar di Giò è già aperto. Lo vedo sempre aperto. Secondo me Giovanni dorme proprio là dentro. La luce che emana dipinge un poligono irregulare giallastro sul pavimento e i primi clienti sono arrivati attratti dall’aroma di caffè appena macinato.

L’edicola è anche aperta. Paola, schiena piegata e una sigaretta in bocca, mette giornali e riviste al loro posto. Ha una tazza di cappuccino fumante in attesa sul bancone. Ancora centocinquanta metri alla fermata.

Guardo a sinistra e vedo l’autobus girare l’angolo. Rosso e lungo, si avvicina alla sua fermata gallegiante come una balena nell’oceano. Lo vedo passare di fronte a me. Veloce, sfidante, con dentro la luce bianca e i sedili vuoti. Ma non riesco a inseguirlo. Il pavimento bagnato mi fa scivolare. Lo perdo, lo perdo anche oggi. L’ho perso.

Carlos